Sordi in ritirata

Il luogo per me più intimo è il bagno. Nulla di romantico: per intimità intendo quel senso di pudore per cui sarebbe altamente preferibile delineare gli spazi tra me e l’altro, soprattutto nei momenti del bisogno. Bagno: quella meravigliosa invenzione composta da lavandino, sanitari e doccia, dove ci si può guardare allo specchio e detenere il maggior controllo sul proprio corpo nelle sue più intime attività fisiologiche e depurative. 

Ma è anche quel luogo di maggior imbarazzo personale e sociale, quando c’è di mezzo la sordità.

Partiamo da mio marito.
Avete presente quando, terminato il vostro bisogno, scoprite di non avere più la carta igienica a portata di mano? Soprattutto quando siete soli in casa?
Ecco, un incubo: ci capiamo e stiamo solidali con chi, in questo momento da qualche parte del mondo, starà imprecando.
Per Mauro è ancora peggio, con me in casa. Non è solo ma è solo, a meno che non porti con sé il cellulare con cui mandarmi un disperato sms. A meno che sua moglie non si tenga il cellulare in casa e non senta le vibrazioni di un sms in arrivo. Insomma, è un continuo “a meno che”. Però, stiamo migliorando, risolvendo il problema alla radice: lasciare sul davanzale un’intera confezione da 8 rotoli. Io, al suo posto, invece: urlo, impreco, imploro e lui arriva subito. Un amore.

In casa mia o altrui, quando arriva il momento del bisogno, ci troviamo di fronte a possibili e realistici scenari:

Scenario n. 1
Se l’interruttore è posto all’esterno, mi si lampeggia la luce dentro. Ma è una cosa a cui non arrivano tutti, non subito.
Comunque, luce on/off ad intermittenza. Mia reazione standard: rispondo a voce alta: “quasi finito!”, “bagno occupato!”, “sto uscendo dalla doccia”, “ancora cinque minuti!”, eccetera. Volendo esagerare, dico pure: “sì, dimmi, che cosa vuoi?”, lasciando il bussatore/lampeggiatore ribattere naturalmente qualcosa a voce, magari poi realizzando di aver impiegato delle corde vocali per niente, tanto non lo sento e mi scappa pure un ghigno sardonico.
Il difficile è quando, dall’altra parte della porta, c’è una persona sorda.
Ma no, siamo dei geni, noi sordi: ce le inventiamo tutte. Dai sms ai bigliettini sotto la porta, fino a fregarcene e lasciarli aspettare fuori per un po’, chiedendoci pero: “ma che cosa vorrà da me?”.

Scenario n.2
Quando l’interruttore è dentro, maledizione.
Se non c’è nessuna chiave nella serratura, sono più vigile del solito, sperando che vada tutto bene. Se mi distraggo e mi ritrovo qualcuno davanti, emano un urlo alla psyco.

Scenario n. 3
Quando è un udente ad essere chiuso dentro a chiave.
Lo scopro girando la maniglia, trovando la porta chiusa. Fine.
Qualunque sia la sua risposta vocale. Al limite, dico “scusa” e scompaio.

Ma con Mauro, una volta, è andata così. Si chiude nel bagno del camper. Passa una mezzora buona e, a quel punto, il cuore di moglie inizia a preoccuparsi. Salgo, busso. Niente. Ribusso, e finalmente mi dà qualche segnale di vita con due colpi alla porta. Bene, gli chiedo: “stai bene?”. Due colpi. “Eh? Stai bene o no?”. Due colpi. Idea: “amore, dammi due colpi se stai bene, zero se stai male”. Nessun rumore, non una vibrazione, niente. Glielo ripeto. Ancora niente. A quel punto, mauro apre la porta: “mi hai chiesto di non bussare se sto male, e io sto male!”. Giusto, e da allora ho cambiato strategia: due colpi se stai bene, tre se stai benino, quattro se stai male, cinque se sei svenuto.

Scenario n.4
Quando la porta è chiusa e non sai se c’è qualcuno dentro.
Come scoprirlo? Giusto: si bussa. Anch’io posso bussare, ma come la mettiamo se di là qualcuno avesse risposto o meno? A questo punto, ho tre possibilità:
a) non apro e mi trattengo tutto dentro. Opzione autolesionistica, lo so, ma almeno non rischio. Per poi scoprire, dopo tre ore, che non c’è mai stato nessuno dentro. Così divento una sorda cretina.
b) apro e non trovo nessuno. Risolto.
c) apro e trovo qualcuno. Oh, merda. Anche letteralmente, se volete metterla così.

Poiché l’opzione c) è molto frequente e fonte di notevole imbarazzo, corro ai ripari facendo così: busso, “se c’è qualcuno dentro, si copra, faccia qualcosa, perché sto per aprire questa fatale porta, ti do venti secondi di tempo” ed entro. Non funziona nemmeno così.

C’è anche la d), ma tranquilli: è quella sempre meno frequente per ovvie ragioni. Consiste nel guardare nel buco della serratura per capire se la luce del bagno è accesa o no. Ma mettete che ci sia un gabinetto all’altezza del buco della serratura? In cui magari si intravedono gambe pelose con pantaloni abbassati? Appunto, per questo ci rinuncio volentieri.

Fine degli scenari. Consideriamo anche che ci sono persone che sanno come fare quando c’è di mezzo una persona sorda e risolvono da sé il problema:
– foglio appeso sulla porta recante la scritta: “bagno occupato, arrangiati”
– accordi verbali: “ogni volta che qualcuno va in bagno, tenga chiusa la porta, altrimenti la tenga aperta”. Il problema è che non sempre vengono rispettati per negligenza o dimenticanza. Capita, e così si ritorna daccapo.
– preavviso: “ehi, sto per andare in bagno, ricordati che sarà occupato fino a che non mi farò vivo io”. Poi magari si dimentica di dirmelo, eh.

Qualcuno, però, ha avuto un’intuizione, ahimè, non prontamente colta dalla sottoscritta.
Tipo: lasciare la porta socchiusa, quanto basta per far vedere che dentro la luce è accesa, quindi, rifletti e rifletti, dovrebbe esserci qualcuno dentro. Nulla di più sbagliato, perché nella mia testa avevo questa immagine: “ecco, qualcuno ha dimenticato di spegnere la luce”. Così, entro e lo trovo seduto sul wc con un viso sorridente e una mano alzata: “ehi, ciao!”.
Quella notte feci fatica ad addormentarmi.

Se mi volete bene e desiderate che io dorma bene la notte, dopo aver soddisfatto tutti i miei bisogni fisiologici, fate così:
– chiudetevi a chiave
– se no, lasciate un post-it sulla porta.
– memorizzatevi gli scenari sopraelencati e agite di conseguenza.

E poi? Accorgimenti nuovi a discrezione dei malcapitati udenti e/o sordi vi verranno subito in mente quando ne avrete l’occasione.
Vi serviranno sempre nel momento del bisogno.

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La sordità umana spiegata ai gatti

Vivo con tre bei soggetti: due gatti e un essere umano. Tutti udenti.
Il primo è Frubi (nome che, in piemontese, significa: “piccolo oggetto inutile”): una bella copia langarola settenne del gatto norvegese delle foreste (diventato poi gatto roerino dell’orto nostrano), dal pelo lungo e morbido, snello e dalla lunga coda di castoro.
Frubi visse felice, coccolato e contento con noi fino a quando, una sera, sbucò alla porta l’altro gatto che, inizialmente, scambiammo per lui, facendolo così entrare in casa.
In men che si dica, si era già messo davanti alla ciotola a finire, anzi, a pulire tutti i resti di cibo avanzati da Frubi.
Per capirci: dal punto di osservazione di noi esseri umani –in piedi, eretti- la visuale era limitata alla schiena di un gatto in corsa. Fin lì tutto bene, forse complici una luce interna piuttosto fioca e una festa di compleanno in corso, fino a quando qualcuno non esclamò: “ma com’è dimagrito!”.
In realtà, più che dimagrito, sembrava proprio rimpicciolito in lunghezza, larghezza e altezza. La coda, poi: non ricordava per nulla quella del castoro.
Fu allora che scoprimmo trattarsi di un intruso di circa otto mesi che poi decise di farsi adottare da noi, senza passare dalla porta principale. Gli abbiamo così dato una casa e un nome: Miciu.
Frubi, allora, cominciò ad avere l’impressione di essere frubi non solo di nome ma anche di fatto.
Ma questa è un’altra storia, quella storia lì per cui se i gatti si facessero certi pensieri tipicamente umani, sarebbe da sedute psicologiche riconducibili ai meccanismi di attaccamento e accudimento con noi esseri umani e di agonismo territoriale a suon di morsi, graffi, occhiatacce.
Però, una cosa Frubi l’ha imparata sulla sua pelle, anzi sul suo stomaco e sui suoi bisogni fisiologici: che io sono sorda e mio marito no. Niente corsi, scuole, documentari, niente.
Certo, anche con me miagola, però deve aver intuito abbastanza presto che con me non ha molto senso, specie se il suo miagolio avesse un specifico scopo che non è solo coccole. Il cibo, per esempio.
Il problema è i due gatti sono mattinieri, Frubi in particolare. All’inizio, funziona così: miagola, sale sul nostro letto, miao, passa sulle nostre teste, emana dei suoni nell’orecchio di mio marito, scende, miao, gira intorno al letto, miao, passa sotto. E ricomincia daccapo, in un loop continuo, apparentemente senza fine.
Mauro sente ma, fedele al detto “chi va con il sordo, fa finta di non sentire per far lavorare l’altro”, ignora il gatto e continua a dormire.
Tentativi dopo tentativi, Frubi sale sul mio cuscino e, con lo zampino, mi preme sulle guance infine mi lecca tre volte il naso e poi comincia a mordicchiarmelo (dev’essere un ossessivo compulsivo: devono essere sempre tre le leccate prima del morso finale, non c’è storia). Come apro gli occhi, si posiziona alla porta con occhi imploranti e coda da castoro dritta. Così ottiene cibo ed esplorazioni all’aperto.
E quando io sono assente e Mauro è solo in casa, Frubi ritorna a fare il gatto udente: miagolio-risposta seccata-cibo/pipì (entrambi, a dir la verità, perché ormai l’umano non si riaddormenta più).
Con me, invece, salta il miao e passa direttamente a zampe/muso sulla mia faccia – risposta seccata – cibo/pipì-io ritorno a dormire.
Insomma, Frubi cambia tattica seconda del caso.
Miciu, invece, ha potenziato una particolare abilità: trasformare un essere umano, nello specifico mio marito, in imitatore felino.
Cioè, Miciu, in barba allo schema comportamentale frubiano stimolo-risposta perfettamente funzionante, miagola in maniera sempre più forte. Così, Mauro, tanto caro e accessibile, mi riporta le diverse tonalità di voce di Miciu: con i segni, con la dattilologia, con la lettura labiale, con fogli che mi passa sotto la porta mentre sono in bagno su cui lascia scritto “miao” a caratteri cubitali, con tanto di punti esclamativi in serie; fino a che io, stremata, non verso il cibo per il gatto urlatore.
Però, con un essere umano che fa i versi del gatto ed un essere felino che richiama la mia attenzione con la sua zampa sulla mia faccia come farebbe un umano, rischio di andare incontro ad un piccolo ma concreto pericolo: mettere le crocchette sul piatto di Mauro e gli gnocchi alla romana nella ciotola di Miciu. 

…ma tu come fai?

Ma non senti davvero nulla? Niente di niente?
No. Dalle orecchie, niente.
Ho le orecchie anatomicamente perfette, devo riconoscerlo. Ne faccio un vanto, e gli orecchini ci stanno proprio bene, sui lobi. Tiro dietro i capelli che è un piacere: se poi mi si risalta il doppio mento, beh, quella sono io e ciò che mangio.
Le orecchie, dicevamo. Non è certo un’immagine poetica quella che vedremo, ma proviamoci lo stesso: da sopra gli orecchini, ci tuffiamo in quel tunnel lì, scivolando lungo il condotto uditivo fino a schiantarci contro il timpano.
Ah! È il timpano che non vibra come dovrebbe?
Oppure sono quei tre ossicini (martello, incudine, staffa) che non se la sentono di nitrire?
Anzi, superando gli ossicini, sono le cellule ciliate, poste all’interno della coclea, che non si muovono a dovere come farebbero i nostri lunghi capelli all’innalzarsi del vento? Plausibilmente, potrebbe essere il vento stesso che, arrivato fin lì, non riesce a soffiare ancora più forte fino a far arrivare al cervello le sue informazioni sonore?
O il cervello, banalmente, non sente bussare la porta da quell’altra parte?

Non entriamo subito nel merito delle varie cause della sordità (delle diverse sordità), magari verranno trattate più in là.
Ritorniamo a noi. Ancora non si è capito che cos’è che non funzioni all’interno delle mie orecchie, né a che livello: tante ipotesi, diverse esami su esami, una verifica scientifica conclusa un po’ malamente per lo sperimentatore. *
E’ ormai chiaro a tutti che io sia sorda. Non come una campana, perché io le campane se ci metto le mani sopra, le sento. Certo, non è molto comodo dover salire ogni volta su una torre solo per il puro gusto di posarci la mano e sentirne le vibrazioni. Ma l’esperienza aiuta, le vertigini un po’ meno.

Ecco, ho provato ad esplorare con voi il mio apparato uditivo per cercare di capire quali possano essere quelle anomalie tail da non consentirmi di sentire al pari delle persone udenti. Ma davvero aiuterebbe voi e noi a capire che cosa significhi non sentire, o semplicemente, essere sordi?
Mi tengo il dubbio, di sicuro non basterebbe, però intanto: chiedere che cosa significa essere sordi a noi sordi dalla nascita è un po’ come chiedere agli udenti che cosa significa sentire, a loro che col suono ci sono nati.

No, ve lo chiedo davvero: come fate a capire se quel coso piccino che vedo in lontananza sia proprio un harley davidson e non un piaggio. Come fate a sentire le cicale, così minuscole, intuendone pure la posizione?
E ancora: meraviglia! Possibile che riusciate a sentire la voce di qualcuno al telefono? Sì, ci avete provato spiegandomi le onde sonore, le frequenze, l’ampiezza, gli acuti, i gravi. Ma niente, posso capirlo ma non concepirlo. E tutto questo, per me, è estremamente affascinante.

Così come fui affascinata (e sì, anche un po’ delusa) quella volta a pranzo dai miei nonni dove io, ottoenne o novenne, ero a tavola con i miei fratelli più grandi.
Ad un certo punto, uno dei miei fratelli non si sentì bene e mia nonna lo accomodò sul letto in un’altra stanza, separata dalla cucina per mezzo di un piccolo atrio e di un corridoio.
Vidi la nonna rimettersi a tavola e lì mi venne un colpo di genio. Dovetti fingermi mio fratello e chiamarla chiedendole di ritornare di nuovo di là, così: “Nonna. Nonna. Nouunnaaaa”, con una indole tipica di chi non si sente bene. Insomma, stavo facendo di tutto per imitare la voce del fratello malato bisognoso di aiuto, per come la “vedevo” io.
La nonna, seduta alla mia destra, invece di girarsi in direzione di quella stanza, si girò proprio verso di me: “dimmi”.
No, non è possibile, mi sono finta mio fratello e lei non ci è cascata. Come ha fatto?

——–

* da: Segna con me: documentario sulla LIS con Silvia Bencivelli e Chiara Tarfano

Sono Vallo e sono sorda!

Sono Vallo, così dicono i miei fratelli.
Sono sorda, così dicono i miei otorini.
Ma questo è il meno. Il più è andare al di là di ciò che siamo io e le mie orecchie.
Sullo stile e sul linguaggio da adottare in questa casa/blog, le regole me le imporrò io, man mano che andrò avanti, ponendomi dei limiti del con-sentito, dei confini del deaf-impolitically-correct.
Non è divulgazione, non è informazione, non è fare notizia. Nemmeno sensibilizzare chissà chi. No, questo blog è puramente un’esternazione dei miei più “sentiti” pensieri su massimi apparati sensoriali e -perché no?- extrasensoriali. Semmai, sarete voi, lettori, a farne ciò che vorrete: prendere, lasciare, pensarci su, magari pure ghignare un pochino, chissà.
A risentirci. Quando me la sentirò.

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